Archivio di marzo 2013

BUONA PASQUA

domenica 31 marzo 2013

Con l’augurio che la Pasqua porti la gioia in ogni cuore.

Vi dedico la poesia  della poetessa   Anna Maria De Ghisi. 

 fiori-primaverili

CANTARE ” ALLELUIA”

Nuvole rosa sull’ultima neve delle cime.    

Occhi di primule e genziane

stupiscono nel sole.  

Da fondali marini e dalla terra

si libera la vita  in tremolii di gemme.  

Più  immenso è il cielo popolato d’ali,

voci di campane  irrompono

tra mandorli  fioriti

e la farfalla  gioca a mosca cieca.

E ‘dolce sentire

la carezza della rama d’ulivo

chè   libera da pensieri inquieti.

Ora che  il gelo è disciolto

e su la tristezza

fiorisce la gioia del creato,    

potesse il mondo umano

accordarsi con la primavera

e cantare “Alleluia ”   

ANNA MARIA DE GHISI

pulcino

Buona Pasqua

sabato 30 marzo 2013
please install flash

Una poesia di Alda Merini letta da Mariangela Melato, un abbinamento “eccellente” per augurare  buona Pasqua ma soprattutto tanta serenità e, almeno per un giorno, tralasciamo i problemi.

Daniela B.

Indicazioni per ascoltare video Giuni Russo

mercoledì 20 marzo 2013

Volevo farVi apprezzare la vocalità unica di Giuni Russo  che replica il suono dei gabbiani e ho caricato il video in fondo all’articolo, cliccate sulla freccia e poi su You tube, la scritta a destra in basso per ascoltare la sua splendida voce.

Franca

a castries per un’inaugurazione che ci riguarda

martedì 19 marzo 2013

Una piccola delegazione di volpianesi si è recata a Castries sabato 16 e domenica 17 maggio. Il motivo principale era l’inaugurazione di un edificio  (ristrutturato in modo eccellente) che sarà una sede espositiva e che contiene una saletta dedicata al nostro gemellaggio. E’ stato un vero piacere vedervi collocati uno stendardo del comune e la scultura  di Ventura donata al comune di Castries accanto ai gagliardetti delle nostre associazioni, a foto dei momenti del gemellaggio e a libri “volpianesi”. E’ stato interessante anche apprendere “come” era stata fatta la ristrutturazione, con un cantiere di “avviamento al lavoro”, di formazione per disoccupati e anche conoscere quello che si fa per quelle che noi chiamiamo “case popolari”.  Scopo della visita era pure  definire il programma per i concerti che, a Castries nel mese di novembre, a Volpiano nella primavera 2014, vedranno esibirsi insieme musici e cantori dei due comuni. Naturalmente è stata pure un’occasione per ritrovare vecchi amici o per farne di nuovi, come sempre siamo tornati dall’incontro più motivati che mai.

PS siccome sappiamo che ci sono state polemiche sul gemellaggio precisiamo che tutto è stato a spese dei partecipanti e invitiamo i “polemici” a partecipare anche loro a queste attività

castries delegazione e amici francesi

castries gemellaggio

castries gonfalone volpiano

castries inaugurazione

castries scutura regalata da volpiano

FATE I VOSTRI COMMENTI ….

martedì 19 marzo 2013

Con oggi  sono stati  pubblicati i racconti  delle quattro scrittrici associate Unitre cha hanno partecipato al “Concorso di poesia e letteratura 2013” di Moncalieri  e che hanno avuto  delle segnalazioni.

Invito tutti i lettori di  questo blog a fare  i commenti dando poi  un voto (da 2 a 10  )  sul racconto preferito  entro fine aprile p.v.  creando  così la possibilità  di un ulteriore riconoscimento anche da parte dell’Unitre di Volpiano

– Andiamo avanti   di Daniela Boscarato

– Matita rossa e blu di Marina Borge

– Pro Missioni di Franca Furbatto

– Un grembiule di tela racconta di Emilia Testù

Buona lettura  a tutti   e ANCORA TANTI  COMPLIMENTI E CONGRATULAZIONI ALLE SCRITTRICI !!!!!

Un grembiule di tela racconta

martedì 19 marzo 2013

Un grembiule di tela racconta

Eccomi! Sono un vecchio grembiule, anzi lo fui, perché adesso non potrei per nulla dimostrarlo, senza quel po’ di storia che ricordo e racconto.

Come ero fatto? Ma nel modo semplice in cui erano fatti i grembiuli che si usavano per lavorare davanti a una forgia, un fuoco era visibile tra i carboni ardenti come la lava in un cratere.

Ma questo fuoco di brace viene alimentato da aria soffiata. Come? Un tempo era un mantice che provvedeva, poi venne sostituito da una particolare ruota azionata da una manovella.

Ora è un motorino elettrico che si incarica di far girare la ruota che produce l’aria;  in due parole l’evoluzione di una forgia.

Quindi spiegare come io ero fatto è inutile perché l’avete già intuito. Il vecchio grembiule qual ero è perfettamente uguale a quelli che ancora si usano oggi!

Quello che mi interesserebbe indagare più a fondo è la stoffa di cui sono fatto, purtroppo non ho informazioni in proposito!

Tutte le cose che vi racconto le ho apprese da coloro che mi hanno usato oppure mi sono passate accanto. Io stavo bene attento alle parole che dicevano, mai  nessuno però aveva spiegato perché in tanti anni, con tutte quelle faville spigionate dalla forgia e che si diffondevano in tutte le direzioni, io non avevo neanche una bruciatura!

Forse ero fatto di una tela speciale impregnata di un qualcosa di segreto. E se il segreto è mantenuto nessun altro lo poteva conoscere.

Un giorno però mi appesero ad un vetusto bilanciere nella parte vecchia dell’officina  divenuta quasi un deposito.

Dimenticato dopo essere stato  un utile accessorio per il lavoro. E’ vero che ora avevo le due strisce che si legavano assieme molto sfilacciate e per nulla del colore primitivo, e la stessa cosa era per il grembiule e la fettuccia che si metteva al collo per indossarlo quando il mio padrone mi usava, ma dimenticarmi così!

Appeso in quel modo vi rimasi fino a quando si lavorò in quella piccola officina, dove non si usava più la forgia e tutti i lavori si facevano attraverso dei macchinari con nomi strani: tornio, rettifica, limatrice e via di questo passo.

Dal posto dove mi avevano appeso e  dimenticato sentivo tutti i rumori di quell’altra parte dell’officina.

Sentivo il sibilo che stordiva quando lavoravano la ghisa. Sibilo davvero fastidioso, mentre era più delicato, si fa per dire perché era pur sempre un rumore, quello che si produceva nella lavorazione del ferro o acciaio perché più corto e meno intenso.

Qualche volta sentivo anche cantare, questo significava che il lavoro era già in fase finale o meno impegnativo. Veniva eseguito sempre  con attenzione ma lasciava spazio ad una certa tranquillità. Questo lo pensavo io perché intuivo senza vedere. Ero lì solo, dimenticato e abbandonato perché chi mi indossava non c’era più.

Passarono alcuni anni, forse troppo pochi e i rumori dell’officina cessarono del tutto.

Anche coloro che avevano messo su questo laboratorio di meccanica, uno dopo l’altro presero la via del cielo.

Poi il locale delle macchine si vuotò, rimasero solo gli scaffali ed il lungo bancone con le morse.

Alcuni macchinari vennero acquistati ed entrarono a far parte di altre officine, mentre la restante parte ebbe una sorte diversa.

In parte acquistati ed il resto donato finirono lontano, presero la via di un container per arrivare in una missione in Sud Sudan. Lì, in una nuova officina, sarebbero divenuti strumenti per insegnare un lavoro a molti giovani di Khartum!

Questo cose le ho sentito raccontare da coloro spostavano tutti i macchinari e credetemi, le hanno raccontate diverse volte.

Così fu anche del vecchio bilanciere ed io fui staccato da una donna e appeso poi….a un chiodo in un vecchio locale.

Il chiodo a cui ero appeso era vicino al lavatoio, non c’erano macchinari rumorosi a parte la lavatrice, io non davo fastidio a nessuno, forse è per questo che fui ancora per molto tempo dimenticato.

Così, in questo luogo più silenzioso mi addormentai.

Non so quanto lungo fu questo sonno.

Ancora una volta la donna mi staccò dal chiodo e dal momento che ero appartenuto a suo suocero, decise di non buttarmi via, aveva in testa un’idea.

Ma prima un bel bagno. Per qualche motivo ero repellente all’acqua, non l’assorbivo per nulla. Provò pure a distendermi passandomi sopra il sapone, ma neanche aiutandosi con la spazzola riusciva ad ottenere dei risultati.

Decise che avrebbe usato le maniere forti.

Mi infilò nella lavatrice per farmi un doppio lavaggio, e per la prima volta con qualcosa di più forte.

Che schifo! Scusate ma all’acqua non ero abituato, figuriamoci al detersivo. Quel ruotare vorticoso  in quella miscela a me sconosciuta  mi avevano privato di quel qualcosa che mi aveva per lungo tempo reso intoccabile dalle faville del fuoco.

Ero sbatacchiato contro il cestello, io non potevo uscire, solo l’acqua se ne andava ed io ero sempre lì.

Spiegazzato e stordito avevo notato con terrore dei fili che si staccavano. Stavo morendo? Per fortuna no, erano solo quelli della fettuccia che si appendeva al collo e delle altre due che oramai non legavano più nulla.

Poi ho sentito ancora una volta un calore quasi come quello di un tempo, ma questo era diverso, piacevole.

Ebbi anche un qualcosa per ammorbidirmi e profumarmi mentre non sapevo più quale era la mia parte di sopra e quella di sotto.

Finalmente tutto questo finì e mi ritrovai alla luce del sole, ero soddisfatto mi sentivo per la prima volta pulito.

La donna invece era delusa di me, è vero che ero diventato pulitissimo ma quel piacevole calore aveva fissato tante grinze alla trama del mio tessuto e lei era molto dispiaciuta.

Si sentiva quasi in colpa, provò ancora vedere se con acqua e spazzola si potevano togliere quei segnetti.

– Ma perché non ho provato ad insistere a lavarlo solo con spazzola e detersivo?-

Io ascoltavo e mi chiedevo il perché visto che ero così pulito.

Mi tolse quei moncherini di fettucce, mentre mi lisciava con le sue mani e mi faceva asciugare disteso sul tavolo di pietra.

Come mai oggetto di tante attenzioni dopo anni di dimenticanza?

Cercò di stirarmi al vapore, è vero che mi distendevo, ma quei segnetti che lei vedeva restavano!

Poi ahimè, sentii le lame delle forbici che mi tolsero, secondo lei, quello che non poteva essere più usato. Un piccolo intervento chirurgico eseguito con perizia. Mi ristabilii in fretta. Ora ero un gran quadrato di tela e misuravo 67×67 cm.!

E’ in quel momento che la sentii dire che voleva ricordare in qualche modo il grembiule del nonno. E’ in questo modo che venivo riconosciuto dai suoi figli e nipoti e da lei che da cinquant’anni abitava in questa casa.

Queste cose le so perché lei da tempo era sola e parlava con le cose che usava, come per riflettere su quello che voleva fare.

Un giorno lo spezzone di grembiule, quindi io, pulito e odoroso di fresco fu appiccicato su di una parte rigida e posto su un cavalletto da pittore.

Prima venni ricoperto con un fondo per pittura e divenni di color uniforme.

Dopo l’asciugatura e un continuo solletico con dei pennelli di varie misure, ebbi un altro colore, anzi una miscellanea di colori. Questo lo so perché lo disse a qualcuno dei suoi tanti nipoti ed anche cos’era prima questa tela e cosa voleva farla diventare.

Ormai parlava non solo del nonno ma anche del bis-nonno!

Ho impiegato del tempo a capire la differenza tra nonno e bisnonno anche se si trattavava della medesima persona. Adesso so che venivo associato al bis-nonno quando le voci che rispondevano alla donna era più giovanili.

Allora la donna raccontava di quando ero un grembiule e che il bis-nonno lo usava con il nipote più grande, quando loro due, di primo mattino, lavoravano alla  forgia e usavano anche la pressa per stampare il ferro reso incandescente dal fuoco.

Così tra un ricordo lontano e un progetto vicino, venivo a sapere cosa sarebbe sorto su questa porzione di vecchio grembiule da lavoro.

Piano piano prese forma l’idea della donna. Sopra un fondo scuro disegnare una boule di vetro, il contenitore per tanti, tantissimi fiori, di tante varietà così da coprire quelle vecchie pieghe che avevo avuto dopo il mio energico lavaggio a caldo nella lavatrice.

Un semplice pezzo di tela valorizzato e trasformato in quadro, con tanto di cornice,  dipinto da lei a….ricordo del suocero e della nuora, la madre dei suoi nipoti.

Ebbi anche l’onore di essere esposto, non come grembiule come ero nato, ma con questo enorme Bouquet di fiori di tutti i colori, anche particolarmente ammirato perché la donna raccontava a tutti l’origine della tela.

Una delle persone che ascoltò la storia della tela, dei fiori per i suoi cinquanta anni di vita nella casa attuale, e più o meno dei quasi cinquanta fiori dipinti, si mise a contarli e poi esclamò:

– I fiori sono invece 54!-

Adesso lo so anch’io quanti fiori adornano questo quadrato di tela speciale che è diventata quasi un’opera d’arte!

Tutto grazie a quella donna che, fino a quando qualcuno racconterà la storia di questo quadro, potrà ricordare ai posteri la storia di  una casa, di un lavoro, di una famiglia, Ora io, semplice grembiule di officina, posso fare bella mostra assieme alle altre tele che la donna ha dipinto, tele di aspetto meno rugoso del sottoscritto ma che non possono esibire una storia come la mia!

Emilia Testù

P.S ci sarebbe anche la foto del quadro ma al momento non me la prende. Proverò in seguito

Tributo a Giuni Russo

martedì 19 marzo 2013

Stavo ascoltando su You tube alcune vecchie canzoni napoletane, quando mi imbatto in una canzone che apparentemente non conosco “Santa Lucia luntana”, non la classica “Santa Lucia”: Sono curiosa di sentirla e mi collego alla versione cantata da  Beniamino Gili . In realtà scopro che conosco la canzone, ma non ne conoscevo il titolo: é una canzone struggente che parla di emigranti napoletani, in partenza per l’America, provati da una profonda nostalgia per la loro città. Santa Lucia è l’ultimo borgo di Napoli che vedono prima che la nave prenda il largo verso il mare aperto. Nel 1926 Roberto Roberti (in arte), al secolo Vincenzo Leone, padre di Sergio Leone, regista, da noi più conosciuto, aveva prodotto un film intitolato “Napoli che canta”, un film muto che mostrava bellissime immagini di una Napoli che non esiste più, volti di languide ragazze dagli splendidi occhi sognanti, ma anche immagini di una città povera, segnata dal degrado, che costringe i suoi figli ad emigrare verso terre lontane. Il film fu proiettato con sottotitoli in inglese in America, ma come si può immaginare, la pellicola fu presto ritirata dal mercato, perchè non gradita dal regime fascista. La pellicola fu dimenticata per anni, fino a quando Elinor Leone, nipote di Vincenzo, ormai anziana, decide di donare la stessa alla George Eastman House International Museum of Photography and Film di Rochester, ‎NY, e nel 2003 il dipartimento cinematografico dell’istituto americano, diretto dal nostro Paolo ‎Cherchi Usai, completò il restauro della pellicola, presentandola alle Giornate del Cinema Muto di ‎Pordenone con l’originaria colonna sonora tutta interpretata dalla splendida voce di Giuni Russo, splendida artista italiana.

Dichiaro la mia ignoranza, ma non conoscevo la cantante. Ho cercato, incuriosita, volevo  trovare il video di “Santa Lucia Luntana”, cantata da Giuni, ma non l’ho trovato. In compenso ho scoperto la grandezza di questa figura artistica, capace di creare con la sua voce emozioni uniche.

Giuseppina Romeo, in arte Giuni Russo, era figlia di Pietro Romeo e Rosa Gauci, penultima di dieci  figli avuti dalla coppia. Nata a Palermo il 10 settembre del 1951, da padre pescatore e madre casalinga. Il padre usciva tutte le mattine in barca e aveva un banco del pesce nel mercato di Borgo Vecchio a Palermo. Giusy sarà l’unica dei numerosi figli che sogna una vita diversa. A pochi anni è già consapevole del suo talento: una magnifica voce, ed é per questo che la bambina vuole diventare una grande cantante e dedicare la sua vita all’arte.

In casa appena nata, viene affidata alle cura della sorella Anna, di nove anni, in quanto la madre, quarantenne deve occuparsi della gestione  della casa, dodici bocche da sfamare, uno dei figli é già fidanzato in casa. Il padre é orgoglioso della sua famiglia, é un uomo generoso, gran lavoratore, non perde occasione per invitare a cena i turisti che accompagna in barca, e la madre nonostante le ristrettezze riesce sempre a preparare per tutti. In queste circostanze la madre, che ha una passione per la lirica, e possiede una splendida voce, sollecitata dai familiari e dagli ospiti si esibisce in bellissime romanze e armonie napoletane. Uno dei cavalli di battaglia é appunto “Santa Lucia luntana”, che Giuni canterà con tanto ardore, anni dopo.

A undici anni si iscrive ad un corso di chitarra al Conservatorio; vive vicino al Politeama, grande teatro di Palermo e tutti i pomeriggi si reca ad ascoltare le prove dei cantanti lirici. Più che mai decisa a seguire il suo sogno si fa assumere per due ore al pomeriggio in una fabbrica di bibite vicino a casa. I soldi che guadagna li usa per prendere lezioni di canto dal maestro Gaiezza, famoso a Palermo per seguire i più grandi cantanti lirici. Dopo la prima audizione, il maestro decide di accettarla come allieva perchè capisce che fa sul serio. Per i primi tempi si fa pagare, ma poi giungono ad un compromesso: Giusy l’accompagnerà nei vari saggi che il maestro tiene nelle scuole e istituzioni della città. Il maestro aveva capito subito che Giusy non cercava di imitare nessuno, ma aspirava ad uno stile personale.  I genitori non avevano tempo per seguirla,  Anna, la sua mamma bambina era morta a undici anni per una meningite fulminante, ma in fondo questa condizione di solitudine, le permise di effettuare le scelte che voleva in autonomia. Partecipò a varie manifestazioni canore, sbaragliando sempre i concorrenti con la potenza della sua voce. Ottenne a tredici anni una scritturazione da solista al Politeama, durante l’estate, per la cifra di tremila lire: doveva accompagnare i vari gruppi che si alternavano sul palcoscenico con la sua voce. La famiglia non era al corrente di questo suo percorso, pur conoscendo la sua passione per la musica.Giusy invitò il padre la prima domenica della manifestazione, esibendosi davanti ad una sala gremita, ed ottenne un successo strepitoso. Da allora il padre la appoggiò nelle sue scelte, apprezzando i sacrifici che aveva fatto per pagarsi le lezioni dal maestro. Nel 1966 a quindici anni si presentò a Castrocaro e vinse tutte le selezioni regionali, ma a Forlì, pur apprezzando la sua voce, la considerarono troppo piccola per esibirsi e la scartarono, invitandola a presentarsi il prossimo anno. Giusy rimase delusa e l’anno dopo non voleva più presentarsi, ma la sorella insistette. Le furono assegnati due brani:” A chi” di Fausto Leali, e “Nel sole”  di Albano, perfetti per la sua voce. Il pubblico trasalì quando nel teatro Giusy cominciò a cantare, apprezzando la sua voce, ma anche la sua freschezza e la sua passione. Giunse al primo posto. Per tradizione poteva scegliere una madrina, e Giusy scelse Caterina Caselli. Ottenne una scritturazione dalla Emi, un’importante casa discografica e la certezza di parteciapre l’anno dopo a Sanremo. Giusy era al settimo cielo, non si accorse delle lunghe ore in treno per ritornare alla sua terra, dove fu accolta con trionfo e affetto dai suoi concittadini. A Sanremo, l’anno dopo, qualcuno propose di farla cantare in coppia con Louis Amstrong, ma poi la scelta cadde su un brano di Paolo Conte “No amore” in coppia con Sacha Distel, più conosciuto come boy friend di Brigitte Bardot. Un brano jazz, molto francese, poco adatto alla manifestazione canora. Giusy fu eliminata. Grande delusione. Presentò altre canzonette al Festivalbar, al Cantagiro, con discreto successo, ma non all’altezza delle aspettative. La sua vita era divisa tra Milano e Palermo, sola senza più la sorella che l’accompagnava, pur avendo solo diciasetteanni, si sentiva  lontana da quella gioventù che manifestava davanti all’università e  che voleva cambiare il mondo: lei voleva solo cantare. Nel 1969 festeggiò il capodanno in Canada, sempre in tournée con la Emi. Fu poi scritturata, su segnalazione di Claudio Villa, che apprezzava la sua voce, per un tour in Giappone con un altro cantante italiano. Il tour prevedeva un tot di serate e la durata di tre mesi, i ritmi erano massacranti e la fatica improba, ma ciò che fece interrompere la tournée da parte di Giusy fu l’onore italiano oltraggiato. L’impresario giapponese considerava il popolo italiano un popolo di pigri, ma quello che urtò profondamente Giusy fu che nel contratto l’impresario aveva fatto inserire una clausola che lo tutelava da eventuali furti che i due artisti italiani avessero compiuto, viste le abitudine dei loro connazionali. Giusy prima di partire si era fatta tradurre dall’inglese le parti più significative del contratto, ma poi in Giappone  dopo due mesi, rileggendo il testo aveva scoperto l’affronto e aveva deciso di rientrare immediatamente in Italia, avendo terminato le apparizioni prima del tempo.

A Milano, intanto aveva conosciuto Antonietta Sisini, di un anno più vecchia di lei, di origine sarda. La ragazza viveva a Milano da parecchi anni, con la madre, dopo il divorzio dal padre. Anch’essa suonava la chitarra ed era un’appassionata di musica, suonava e cantava in un complesso musicale, ma dopo che ebbe ascoltato Giusy cantare la prima volta, non si esibì mai più in pubblico, perché nessuna voce poteva competere con quella dell’amica. Le due ragazze divennero inseparabili e compagne nella vita. La madre di Antonietta accolse Giusy a casa come una figlia, e Giusy la ricambiò con altrettanto amore.

Intanto la gavetta continuava, si moltiplicarono le serate e tante furono le porte alle quali le ragaze bussarono per farsi accettare qualche brano di loro composizione. Ottennero collaborazioni e scritture diverse con artisti di pregio, quali Franco Battiato, con il quale instaurarono un bellissimo rapporto di collaborazione e di amicizia. Giunsero anche ad un contratto con la CGD, importante e potente casa discografica italiana, diretta da Stanislao Sugar, padre di Piero, marito di Caterina Caselli, la madrina di Castrocaro della Russo. Giuni (nel frattempo aveva modificato il nome ) firmò un contratto per cinque anni con la casa, che si dimostrò con il tempo capestro: l’artista si  impegnava a cantare le canzoni che le venivano proposte, a promuoverne le presentazioni, a partecipare alle varie manifestazioni canore, a seguire le torunée  e anche dopo la risoluzione del contratto la Russo avrebbe dovuto riconoscere alla casa discografica una percentuale sui futuri guadagni, a fronte di nuovi ingaggi. L’inesperienza delle ragazze e l’entusiasmo di essere giunte ad una scrittura, fece loro sottovalutare l’ importanza di certe clausole. I successi non mancarono, come “Un’estate al mare”, “Alghero”, “Limonata cha cha”, “Mediterranea”, alcuni album di pregio, ma la strada che Giuni voleva percorrere era di ricerca, di sperimentazione della voce,  di musica di confine, mentre la casa puntava solo su successi commerciali visibili ed immediati. Ben presto i disaccordi si intensificarono sino a giungere ad una chiusura definitiva dei rapporti due anni prima della scadenza del contratto. Risoluzione non indolore, di lì in avanti Giuni trovò solo porte chiuse. Ma il suo orgoglio e la sua determinazione non le impedirono di seguire la sua strada, portandola dalle balere estive alla ricerca di un senso più profondo dell’esistenza, sino alla composizione di testi musicali sacri di tutte le religioni del mondo. Nel 2003 si presentò a Sanremo, già segnata da un tumore che combatteva da anni, con una canzone  “Morirò d’amore”, quasi a voler segnare il suo addio e che non fu capita come avrebbe dovuto. Morì nel 2004 a soli 53 anni, accudita fino alla fine dei suoi giorni dalla compagna inseparabile Antonietta, che continua ancora oggi a promuovere la sua figura e il suo talento.

Vi invito ad ascoltare la sua voce, splendida ed unica e a leggere la sua bibliografia che Bianca Pitzorno ha scritto con rispetto e serietà per Lei.

Franca Furbatto

please install flash

ANDIAMO AVANTI

lunedì 18 marzo 2013

Quell’anno a Torino la primavera si faceva desiderare, il tempo era piovoso e la temperatura ancora rigida.  Alle nove di sera le strade erano lucide per la pioggia caduta fino a poche ore prima e una Fiat Ritmo, color giallo-arancio,  sfrecciava lungo i grandi viali che attraversano la città.  A quell’ora il traffico era meno intenso, anche se non del tutto cessato. Le luci, riflettendosi sulle strade bagnate, mandavano bagliori intermittenti.

Francesco, l’uomo alla guida, svoltò in Corso Grosseto fissando ripetutamente lo specchietto retrovisore.  Aveva la sensazione di essere inseguito da un’auto bianca e quando vide il semaforo verde davanti a sé, di proposito, rallentò per scattare improvvisamente al giallo. Guardò nuovamente il retrovisore e vide la stessa Lancia bianca bruciare il semaforo ormai rosso. Un brivido lo scosse, anche se quell’auto mantenne una certa distanza.

Una specie di allerta scattò in Francesco che ricordò quanto il capo del personale gli avesse detto qualche tempo prima: “Ora lei dovrà essere guardingo, capire se è seguito quando  si sposta da e per il lavoro. L’azienda farà il possibile per tutelarla ma lei dovrà metterci molto del suo”.

Tutto era nato da quel processo:  “Neanche fossi un pezzo grosso…” pensò.

In quegli anni nelle grandi fabbriche, specie in quel laboratorio social-politico che era la Fiat di Mirafiori, c’era una vera e propria organizzazione antagonista alla gerarchia aziendale e sindacale. Era diffuso un atteggiamento intimidatorio nei confronti dei capi. Attraverso volantini e manifesti (Dazebao) all’interno delle officine, propagandavano la violenza in fabbrica contro l’organizzazione aziendale “colpirne uno per educarne cento

Questo era lo slogan coniato e sui manifesti erano indicati i nomi e cognomi delle persone da colpire. In Fiat e in altre grandi aziende si erano infiltrate le Brigate Rosse.

Si era creato un clima di tensione sociale, di odio, sfociati nel terrorismo. Non per niente gli anni ’70 e parte degli anni ’80 sono ricordati come gli anni di piombo

Francesco affrontò il cavalcavia e pensò: “Svolterò in Corso Vercelli e lì capirò se sono veramente pedinato”.  Improvvisamente vide davanti a sé le lampeggianti blu della Polizia.  Piazza Rebaudengo era tutta bloccata: ai quattro lati della piazza le camionette della Polizia controllavano i veicoli in transito.

Era uno dei tanti posti di blocco che sovente paralizzavano aree della città per contrastare il terrorismo.

Rallentò accodandosi alla fila.  Gli agenti, dopo un rapido sguardo agli occupanti, invitavano alcune vetture a proseguire, mentre altre erano dirottate nei punti di controllo.

Quando toccò a lui non fu fortunato.  Forse per i suoi trent’anni, l’aria stanca, capelli un po’ lunghi e i baffi che, nonostante la giacca e la cravatta, gli attribuivano un’aria sospetta.

“Scendi dalla macchina” disse, con tono perentorio che non ammetteva repliche, un agente con la pistola in pugno.  “Tira fuori i documenti senza fare movimenti bruschi. Da dove vieni?” continuò trattandolo come fosse un delinquente.

“Arrivo dal lavoro, da Mirafiori”-  “A quest’ora? Scommetto anche che fai il capo-reparto, dicono tutti così”.

Nel frattempo un altro poliziotto si avviò verso la Lancia bianca che si era avvicinata al posto di blocco. Il finestrino si abbassò e parlò con i due occupanti indicando la ritmo giallo-arancio.

Francesco era furioso, le mascelle contratte, l’espressione tirata: Ma come? Non bastava ancora? Ne aveva già avuto molti di problemi quel giorno  anche la Polizia si metteva d’impegno a complicargli la vita.  La rabbia repressa era tanta ma non poteva permettersi di perdere la calma, doveva assolutamente, ancora una volta, controllarsi.

Il poliziotto che si era recato all’auto bianca tornò e parlò con l’agente che aveva la pistola in mano. Fu allora che questo rivolgendosi a Francesco con tono civile e passando dal tu al lei, gli disse “Lei può andare, buonasera” Intanto la Lancia bianca, sgommando, attraversò l’incrociò e se ne andò.

Francesco salì sulla ritmo giallo-arancio, tirò un sospiro di sollievo: aveva capito che non era solo,  altri lo aiutavano .  Ora poteva finalmente tornare a casa, sempre che la benzina lo permettesse. Quella su cui viaggiava era una delle auto che l’azienda aveva messo a disposizione delle persone più a rischio. Scambiando le vetture tra loro avrebbero reso più difficile l’individuazione. Le auto erano intestate all’azienda ma la benzina a carico degli utilizzatori e quando venivano consegnate, il carburante contenuto era sotto il minimo  e  pertanto viaggiavano  a vapore di benzina.

Arrivò a casa, la luce del giardino era spenta, “meno male” pensò, era un segnale prestabilito e stava a indicare che poteva entrare.  Scese dalla macchina e il cane, un grosso pastore tedesco, arrivò puntuale sul cancello. “Buon segno anche questo”. Mentre parcheggiava, Rita, la moglie, lo raggiunse e vedendolo sulla ritmo giallo-arancio gli disse: “ ma che razza di colore ha quest’auto? E’ per non passare inosservato?  Se non ti avessi visto scendere subito avrei acceso la luce nel giardino. Com’è andata oggi?”

Come uomo di solito non era molto loquace, sempre controllato, le parole misurate. A casa raccontava solo in parte quello che stava accadendo, per non creare allarmismi.

Le tensioni però c’erano già, sotterranee, cocenti… era sufficiente accendere la televisione e leggere i giornali. E la sera quando lui rientrava, a Rita bastava cogliere  quell’impercettibile ombra nello sguardo, il sorriso lievemente tirato e conoscendolo, sapendo che tentava di ridimensionare i problemi, le si stringeva il cuore. Non chiedeva nulla per non girare il coltello nella ferita, ma a volte immaginare è peggio che sapere. La certezza dà la dimensione della difficoltà, l’incertezza aumenta l’ansia.

E quando l’ansia si faceva opprimente,  la sua mente cercava conforto in alcuni versi:

Se puoi essere forte senza cessare di essere tenero,  se puoi essere sempre coraggioso e mai imprudente, se puoi conservare il tuo sangue freddo quando tutti lo perdono, allora sarai un uomo”. (R. Kipling)

Queste parole esprimevano l’immagine che aveva del marito e ne era intimamente orgogliosa.

Quella sera Francesco dimostrò un inconsueto fervore. L’aver scoperto che gli davano protezione a distanza, l’aveva rincuorato e gli era tornata la voglia di scherzare.

Le raccontò del posto di blocco, lei lo prese in giro per via dei baffetti da sparviero che gli davano un aspetto ambiguo.

Seduto a tavola per la cena, continuò a narrare gli episodi che aveva vissuto:

Lotta dura senza paura, pagherete tutto, pagherete caro” – “Il corteo avanzava minaccioso nel reparto fermo, poiché ormai era impossibile lavorare. Il fazzoletto rosso copriva i loro visi. Rovesciavano e distruggevano tutto quello che trovavano.

Non dovevo farmi vedere perché oltre ai problemi fisici che avevo già sperimentato, avrei avuto grane anche con la Direzione che dall’altra parte imperava: – “Non vogliamo eroi o teste calde, capito?”

Lei sentì un brivido lungo la schiena. Nonostante i suoi venticinque anni era sufficientemente matura per comprendere i rischi che suo marito doveva quotidianamente affrontare per riuscire a lavorare. La realtà era dura da accettare e  con  fatica  riuscì a  mascherare il nodo in gola che le toglieva l’appetito.

Per tentare di sdrammatizzare, qualche volta di sera, quando la piccola famiglia si  riuniva,  intonavano scherzosamente – Lotta dura senza paura…..- non tenendo conto che la loro bambina, di quattro anni, imparò il ritornello e lo cantò all’asilo. Ci fu un richiamo dalla maestra.

Il racconto proseguì fluido, dettagliato, come se stesse rivivendo quei momenti: “Trovai rifugio nel sottoscala con altri colleghi fino a quando il corteo si allontanò con un altro slogan – Come mai, come mai, sempre in c… agli operai, or che i tempi son cambiati anche in c… agli impiegati.”

Francesco all’epoca era capo-reparto e la sera, dopo il lavoro, frequentava l’università; gli mancavano pochi esami e si sarebbe laureato.

Una sera entrò a Palazzo Nuovo con un amico, studente-lavoratore come lui.

Schiamazzi, discussioni, gruppi di giovani barbuti, disordine ovunque. Loro avevano lezione e decisero di entrare ugualmente.

Attraversato l’atrio, dal fondo, una voce gridò imperiosa:prostituti sociali!

Tutti tacquero.

L’amico, pallido e sottovoce,  disse: “Pensi ce l’abbiamo con noi?”  “Si” rispose Francesco, “ma non voltiamoci,  poi usciremo dal garage”. –

Ostentavano sicurezza, indifferenza, in realtà si sentivano beffati, umiliati, vittime di un’ingiustizia che non meritavano: in fondo volevano fare soltanto il loro dovere.

Alcuni giorni dopo, alle sei del mattino, entrando nell’ufficio del reparto, Francesco trovò i colleghi che con il volto tirato e gli occhi lucidi gli dissero: “Sai, hanno gambizzato Aldo” – “Chi sono stati? I Brigatisti o Prima Linea?” – “Non si sa, erano quattro armati contro uno indifeso. Di sicuro erano dei vigliacchi” – “ Domani toccherà a uno di noi, cosa facciamo?”

Un lavoratore, un amico, uno di loro era stato gravemente ferito nel corpo, loro tutti lo erano nell’anima. L’istinto che incitava alla ribellione fu domato a stento. Alla fine prevalse un radicato buon senso che permise solo di dire: –Andiamo avanti

Erano anch’essi giovani uomini arrabbiati, stanchi di subire vessazioni, avrebbero voluto reagire, ma come? Con gli stessi mezzi utilizzati dai violenti? Qualcuno lo propose ma non faceva parte della loro cultura. E poi cosa sarebbe successo? La guerra civile.

La lotta di classe era diventata una guerra tra poveri: si colpivano altri lavoratori.

Dovevano essere forti, superiori, non cadere nelle provocazioni, perché era esattamente quello che volevano i brigatisti.

Hanno scelto l’altra via, quella democratica. Hanno avuto fiducia in se stessi, nelle istituzioni, nella magistratura, nella pubblica sicurezza, nell’azienda e nel sindacato, quello vero, che nel clima arroventato, violento, venutosi a creare, riuscì a mantenere la fermezza necessaria.

Eloquente il discorso di Luciano Lama nel novembre del 79 che a proposito dei cortei selvaggi disse: “ I capi sono lavoratori come gli altri” – Dovette ripeterlo tre volte per sopraffare le urla degli estremisti.

Ognuno fece la sua parte: i violenti furono denunciati, le forze dell’ordine li arrestarono, l’azienda li licenziò. La magistratura li processò e li condannò.  Francesco, con pochi altri, andò a testimoniare in Tribunale.

Come se non bastasse,  ebbe una visibilità mediatica della quale avrebbe fatto volentieri a meno: “Rivissuta in aula da due capi Fiat la paura di quel giorno di luglio – Ci cacciarono da Mirafiori con spintoni, calci e sputi”,

Questo e altro ancora riportarono i quotidiani di quell’ostico e gelido gennaio del 1980.

Anche la televisione fece la sua parte trasmettendo la testimonianza con primi piani ai quali venivano aggiunti nomi e cognomi: semmai qualcuno, non avendo letto i giornali, avesse avuto qualche dubbio.

I terroristi colpirono duro sopprimendo fisicamente tutti quelli che, secondo la loro ideologia, erano i nemici del popolo. Più di trecento tra morti e feriti. Tra i politici perse la vita Moro, tra i magistrati Alessandrini, tra i giornalisti Casalegno, tra i dirigenti Ghiglieno, tra i sindacalisti Rossa, e ancora tanti altri nomi illustri e no.

Davanti al terrore, altri giovani consapevoli delle responsabilità e dei ruoli che la vita aveva loro assegnato, hanno accettato la sfida continuando a svolgere le loro mansioni con costanza e serietà, senza esitare.  Quelle tormentate esperienze hanno fortificato ancor più i loro caratteri e con determinazione e forza d’animo hanno lottato contro la cultura della morte e hanno vinto.

Oggi i baffi di Francesco sono bianchi, non li ha più tagliati da allora. Molto è cambiato nel frattempo. Il mondo attuale, affastellato di cose, privo di etica, prigioniero di una volgarità che inquina ogni pensiero, non tiene più conto dei valori morali.

I problemi dei nostri giovani sono di natura  diversa ma non per questo meno gravi: Il destino dell’umanità si snoda sempre su strade tortuose.

Anche i nostri ragazzi sapranno superare le difficoltà e crearsi il loro futuro. Noi daremo tutta la solidarietà e tutto il sostegno morale e materiale di cui saremo capaci e di tanto in tanto diremo…andiamo avanti!

CALCIATORI IN CAMPO per l’ambiente

sabato 16 marzo 2013

Anche il Sindaco di Volpiano invita tutti  a partecipare al grande concorso di figurine  della Panini

Basterà raccogliere n. 12.ooo  bustine vuote  delle figurine (possono unirsi  scuole, parrocchie, società sportive …ragazzi e papà )  e depositarle nei vari raccoglitori che sono stati posti fuori dai  negozi, uno anche  in Comune ,   per poter ricevere  un intera attrezzatura   per l’allestimento di un vero campo di calcio, si partecipa inoltre  all’estrazione di  n.3 campi di calcio in erba artificiale.

Sportivi e simpatizzanti Volpianesi unitevi !!!   ………. chissà  che i nostri ragazzi  possano avere uno spazio in più.

Considerazioni personali

mercoledì 13 marzo 2013

Ringrazio il Signor Sindaco, sempre competente e preciso per quanto riguarda la legislazione vigente, per la precisa e dettagliata risposta. Nonostante ciò ritengo, mia personale considerazione, che il Comune di Volpiano rimane sempre ai lati dell’informazione sia locale e non, vedi in ultima analisi, i risultati delle elezioni: sul giornale La Stampa erano menzionati i risultati dei paesi canavesani e valli di Lanzo, eccetto Volpiano e San Benigno ed è tutto da verificare se gli Amministratori di altri comuni operino al di fuori delle leggi. Alcuni Sindaci del territorio torinese hanno chiesto aiuto ai suoi cittadini per smascherare chi abbandona i rifiuti sul territorio comunale, credo sempre nell’ambito delle leggi vigenti. Gli Italiani onesti, e sono la maggior parte del Popolo Italiano, non considerano la rottamazione figlia della carta di identità, come l’esercito dei nonni che tiene in piedi le famiglie squassate dalla crisi, figure insostituibili in un scenario sano circondato da imbonitori e giullari politici. La rabbia popolare è montata contro chi ha sempre solo parlato, promesso, auspicato e mai fatto. Il Popolo non bue è stanco di obiettivi, tavoli di lavoro. commissioni di lavoro, consorzi, commissioni di inchiesta, progetti utili solo come ricoveri di politici di secondo piano, ma con retribuzioni di primo piano: contano i gesti non i fiati. Siamo nella melma più torbida. Gli sguardi stanchi ma fieri dei nonni che accompagnano alla propria dimora i nipotini non hanno bisogno di troppe spiegazioni. La loro forza dirompente dovrebbe essere d’esempio. Non resta che venirne fuori, ma questa, da millenni, è la specialità di Noi Italiani onesti.