ANDIAMO AVANTI

Quell’anno a Torino la primavera si faceva desiderare, il tempo era piovoso e la temperatura ancora rigida.  Alle nove di sera le strade erano lucide per la pioggia caduta fino a poche ore prima e una Fiat Ritmo, color giallo-arancio,  sfrecciava lungo i grandi viali che attraversano la città.  A quell’ora il traffico era meno intenso, anche se non del tutto cessato. Le luci, riflettendosi sulle strade bagnate, mandavano bagliori intermittenti.

Francesco, l’uomo alla guida, svoltò in Corso Grosseto fissando ripetutamente lo specchietto retrovisore.  Aveva la sensazione di essere inseguito da un’auto bianca e quando vide il semaforo verde davanti a sé, di proposito, rallentò per scattare improvvisamente al giallo. Guardò nuovamente il retrovisore e vide la stessa Lancia bianca bruciare il semaforo ormai rosso. Un brivido lo scosse, anche se quell’auto mantenne una certa distanza.

Una specie di allerta scattò in Francesco che ricordò quanto il capo del personale gli avesse detto qualche tempo prima: “Ora lei dovrà essere guardingo, capire se è seguito quando  si sposta da e per il lavoro. L’azienda farà il possibile per tutelarla ma lei dovrà metterci molto del suo”.

Tutto era nato da quel processo:  “Neanche fossi un pezzo grosso…” pensò.

In quegli anni nelle grandi fabbriche, specie in quel laboratorio social-politico che era la Fiat di Mirafiori, c’era una vera e propria organizzazione antagonista alla gerarchia aziendale e sindacale. Era diffuso un atteggiamento intimidatorio nei confronti dei capi. Attraverso volantini e manifesti (Dazebao) all’interno delle officine, propagandavano la violenza in fabbrica contro l’organizzazione aziendale “colpirne uno per educarne cento

Questo era lo slogan coniato e sui manifesti erano indicati i nomi e cognomi delle persone da colpire. In Fiat e in altre grandi aziende si erano infiltrate le Brigate Rosse.

Si era creato un clima di tensione sociale, di odio, sfociati nel terrorismo. Non per niente gli anni ’70 e parte degli anni ’80 sono ricordati come gli anni di piombo

Francesco affrontò il cavalcavia e pensò: “Svolterò in Corso Vercelli e lì capirò se sono veramente pedinato”.  Improvvisamente vide davanti a sé le lampeggianti blu della Polizia.  Piazza Rebaudengo era tutta bloccata: ai quattro lati della piazza le camionette della Polizia controllavano i veicoli in transito.

Era uno dei tanti posti di blocco che sovente paralizzavano aree della città per contrastare il terrorismo.

Rallentò accodandosi alla fila.  Gli agenti, dopo un rapido sguardo agli occupanti, invitavano alcune vetture a proseguire, mentre altre erano dirottate nei punti di controllo.

Quando toccò a lui non fu fortunato.  Forse per i suoi trent’anni, l’aria stanca, capelli un po’ lunghi e i baffi che, nonostante la giacca e la cravatta, gli attribuivano un’aria sospetta.

“Scendi dalla macchina” disse, con tono perentorio che non ammetteva repliche, un agente con la pistola in pugno.  “Tira fuori i documenti senza fare movimenti bruschi. Da dove vieni?” continuò trattandolo come fosse un delinquente.

“Arrivo dal lavoro, da Mirafiori”-  “A quest’ora? Scommetto anche che fai il capo-reparto, dicono tutti così”.

Nel frattempo un altro poliziotto si avviò verso la Lancia bianca che si era avvicinata al posto di blocco. Il finestrino si abbassò e parlò con i due occupanti indicando la ritmo giallo-arancio.

Francesco era furioso, le mascelle contratte, l’espressione tirata: Ma come? Non bastava ancora? Ne aveva già avuto molti di problemi quel giorno  anche la Polizia si metteva d’impegno a complicargli la vita.  La rabbia repressa era tanta ma non poteva permettersi di perdere la calma, doveva assolutamente, ancora una volta, controllarsi.

Il poliziotto che si era recato all’auto bianca tornò e parlò con l’agente che aveva la pistola in mano. Fu allora che questo rivolgendosi a Francesco con tono civile e passando dal tu al lei, gli disse “Lei può andare, buonasera” Intanto la Lancia bianca, sgommando, attraversò l’incrociò e se ne andò.

Francesco salì sulla ritmo giallo-arancio, tirò un sospiro di sollievo: aveva capito che non era solo,  altri lo aiutavano .  Ora poteva finalmente tornare a casa, sempre che la benzina lo permettesse. Quella su cui viaggiava era una delle auto che l’azienda aveva messo a disposizione delle persone più a rischio. Scambiando le vetture tra loro avrebbero reso più difficile l’individuazione. Le auto erano intestate all’azienda ma la benzina a carico degli utilizzatori e quando venivano consegnate, il carburante contenuto era sotto il minimo  e  pertanto viaggiavano  a vapore di benzina.

Arrivò a casa, la luce del giardino era spenta, “meno male” pensò, era un segnale prestabilito e stava a indicare che poteva entrare.  Scese dalla macchina e il cane, un grosso pastore tedesco, arrivò puntuale sul cancello. “Buon segno anche questo”. Mentre parcheggiava, Rita, la moglie, lo raggiunse e vedendolo sulla ritmo giallo-arancio gli disse: “ ma che razza di colore ha quest’auto? E’ per non passare inosservato?  Se non ti avessi visto scendere subito avrei acceso la luce nel giardino. Com’è andata oggi?”

Come uomo di solito non era molto loquace, sempre controllato, le parole misurate. A casa raccontava solo in parte quello che stava accadendo, per non creare allarmismi.

Le tensioni però c’erano già, sotterranee, cocenti… era sufficiente accendere la televisione e leggere i giornali. E la sera quando lui rientrava, a Rita bastava cogliere  quell’impercettibile ombra nello sguardo, il sorriso lievemente tirato e conoscendolo, sapendo che tentava di ridimensionare i problemi, le si stringeva il cuore. Non chiedeva nulla per non girare il coltello nella ferita, ma a volte immaginare è peggio che sapere. La certezza dà la dimensione della difficoltà, l’incertezza aumenta l’ansia.

E quando l’ansia si faceva opprimente,  la sua mente cercava conforto in alcuni versi:

Se puoi essere forte senza cessare di essere tenero,  se puoi essere sempre coraggioso e mai imprudente, se puoi conservare il tuo sangue freddo quando tutti lo perdono, allora sarai un uomo”. (R. Kipling)

Queste parole esprimevano l’immagine che aveva del marito e ne era intimamente orgogliosa.

Quella sera Francesco dimostrò un inconsueto fervore. L’aver scoperto che gli davano protezione a distanza, l’aveva rincuorato e gli era tornata la voglia di scherzare.

Le raccontò del posto di blocco, lei lo prese in giro per via dei baffetti da sparviero che gli davano un aspetto ambiguo.

Seduto a tavola per la cena, continuò a narrare gli episodi che aveva vissuto:

Lotta dura senza paura, pagherete tutto, pagherete caro” – “Il corteo avanzava minaccioso nel reparto fermo, poiché ormai era impossibile lavorare. Il fazzoletto rosso copriva i loro visi. Rovesciavano e distruggevano tutto quello che trovavano.

Non dovevo farmi vedere perché oltre ai problemi fisici che avevo già sperimentato, avrei avuto grane anche con la Direzione che dall’altra parte imperava: – “Non vogliamo eroi o teste calde, capito?”

Lei sentì un brivido lungo la schiena. Nonostante i suoi venticinque anni era sufficientemente matura per comprendere i rischi che suo marito doveva quotidianamente affrontare per riuscire a lavorare. La realtà era dura da accettare e  con  fatica  riuscì a  mascherare il nodo in gola che le toglieva l’appetito.

Per tentare di sdrammatizzare, qualche volta di sera, quando la piccola famiglia si  riuniva,  intonavano scherzosamente – Lotta dura senza paura…..- non tenendo conto che la loro bambina, di quattro anni, imparò il ritornello e lo cantò all’asilo. Ci fu un richiamo dalla maestra.

Il racconto proseguì fluido, dettagliato, come se stesse rivivendo quei momenti: “Trovai rifugio nel sottoscala con altri colleghi fino a quando il corteo si allontanò con un altro slogan – Come mai, come mai, sempre in c… agli operai, or che i tempi son cambiati anche in c… agli impiegati.”

Francesco all’epoca era capo-reparto e la sera, dopo il lavoro, frequentava l’università; gli mancavano pochi esami e si sarebbe laureato.

Una sera entrò a Palazzo Nuovo con un amico, studente-lavoratore come lui.

Schiamazzi, discussioni, gruppi di giovani barbuti, disordine ovunque. Loro avevano lezione e decisero di entrare ugualmente.

Attraversato l’atrio, dal fondo, una voce gridò imperiosa:prostituti sociali!

Tutti tacquero.

L’amico, pallido e sottovoce,  disse: “Pensi ce l’abbiamo con noi?”  “Si” rispose Francesco, “ma non voltiamoci,  poi usciremo dal garage”. –

Ostentavano sicurezza, indifferenza, in realtà si sentivano beffati, umiliati, vittime di un’ingiustizia che non meritavano: in fondo volevano fare soltanto il loro dovere.

Alcuni giorni dopo, alle sei del mattino, entrando nell’ufficio del reparto, Francesco trovò i colleghi che con il volto tirato e gli occhi lucidi gli dissero: “Sai, hanno gambizzato Aldo” – “Chi sono stati? I Brigatisti o Prima Linea?” – “Non si sa, erano quattro armati contro uno indifeso. Di sicuro erano dei vigliacchi” – “ Domani toccherà a uno di noi, cosa facciamo?”

Un lavoratore, un amico, uno di loro era stato gravemente ferito nel corpo, loro tutti lo erano nell’anima. L’istinto che incitava alla ribellione fu domato a stento. Alla fine prevalse un radicato buon senso che permise solo di dire: –Andiamo avanti

Erano anch’essi giovani uomini arrabbiati, stanchi di subire vessazioni, avrebbero voluto reagire, ma come? Con gli stessi mezzi utilizzati dai violenti? Qualcuno lo propose ma non faceva parte della loro cultura. E poi cosa sarebbe successo? La guerra civile.

La lotta di classe era diventata una guerra tra poveri: si colpivano altri lavoratori.

Dovevano essere forti, superiori, non cadere nelle provocazioni, perché era esattamente quello che volevano i brigatisti.

Hanno scelto l’altra via, quella democratica. Hanno avuto fiducia in se stessi, nelle istituzioni, nella magistratura, nella pubblica sicurezza, nell’azienda e nel sindacato, quello vero, che nel clima arroventato, violento, venutosi a creare, riuscì a mantenere la fermezza necessaria.

Eloquente il discorso di Luciano Lama nel novembre del 79 che a proposito dei cortei selvaggi disse: “ I capi sono lavoratori come gli altri” – Dovette ripeterlo tre volte per sopraffare le urla degli estremisti.

Ognuno fece la sua parte: i violenti furono denunciati, le forze dell’ordine li arrestarono, l’azienda li licenziò. La magistratura li processò e li condannò.  Francesco, con pochi altri, andò a testimoniare in Tribunale.

Come se non bastasse,  ebbe una visibilità mediatica della quale avrebbe fatto volentieri a meno: “Rivissuta in aula da due capi Fiat la paura di quel giorno di luglio – Ci cacciarono da Mirafiori con spintoni, calci e sputi”,

Questo e altro ancora riportarono i quotidiani di quell’ostico e gelido gennaio del 1980.

Anche la televisione fece la sua parte trasmettendo la testimonianza con primi piani ai quali venivano aggiunti nomi e cognomi: semmai qualcuno, non avendo letto i giornali, avesse avuto qualche dubbio.

I terroristi colpirono duro sopprimendo fisicamente tutti quelli che, secondo la loro ideologia, erano i nemici del popolo. Più di trecento tra morti e feriti. Tra i politici perse la vita Moro, tra i magistrati Alessandrini, tra i giornalisti Casalegno, tra i dirigenti Ghiglieno, tra i sindacalisti Rossa, e ancora tanti altri nomi illustri e no.

Davanti al terrore, altri giovani consapevoli delle responsabilità e dei ruoli che la vita aveva loro assegnato, hanno accettato la sfida continuando a svolgere le loro mansioni con costanza e serietà, senza esitare.  Quelle tormentate esperienze hanno fortificato ancor più i loro caratteri e con determinazione e forza d’animo hanno lottato contro la cultura della morte e hanno vinto.

Oggi i baffi di Francesco sono bianchi, non li ha più tagliati da allora. Molto è cambiato nel frattempo. Il mondo attuale, affastellato di cose, privo di etica, prigioniero di una volgarità che inquina ogni pensiero, non tiene più conto dei valori morali.

I problemi dei nostri giovani sono di natura  diversa ma non per questo meno gravi: Il destino dell’umanità si snoda sempre su strade tortuose.

Anche i nostri ragazzi sapranno superare le difficoltà e crearsi il loro futuro. Noi daremo tutta la solidarietà e tutto il sostegno morale e materiale di cui saremo capaci e di tanto in tanto diremo…andiamo avanti!

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