Un abbraccio di guerra – Francesco Giordana

guerra ambulanza

Un abbraccio di guerra   ( secondo premio al concorso letterario Unitre a Moncaliei)

La luce del giorno fece irruzione nella camera attraverso le tapparelle.Il sole,che si era negato per lunghi giorni, si annunciò prepotente sul viso di Franco, ancora alle prese con l’ultimo sogno della mattina. Si, spesso l’ultimo quarto d’ora del mattino, prima del risveglio, era portatore di sogni, leggeri, ingarbugliati, a volte piacevoli, a volte angoscianti.
Ora stava passeggiando lungo un pianoro di montagna, il sole era alto e il cielo limpido era completamente senza nuvole. Nei prati era esplosa la primavera, con il verde dei prati, con il colore e il profumo dei fiori. Quel profumo, gradevole e aggressivo ad un tempo, lo rese piacevolmente euforico e si sentì leggero e libero. Così leggero che cominciò a volare e si librò nell’aria, su, su verso la montagna, che aveva ancora la cima coperta di neve. In alto, sempre più in alto, fino a contemplare tutto l’altopiano, attraversato da un torrente gorgogliante.
Ma dove era? Non ricordava di aver mai visto quei luoghi, eppure era come se li conoscesse da sempre. Sapeva che laggiù, verso la pianura, c’era una chiesetta bianca col tetto in pietra, che a destra si apriva un canalone che i pini cercavano invano di conquistare, aggredendo le pietre e i massi del fondo, che in alto, verso la cima che dominava il paesaggio c’era una collinetta ricoperta di rododendri. Si trattava certamente di un altopiano delle Alpi Orientali, ma Franco non ricordava di essere mai passato in quei luoghi…Poi guardò in alto, un raggio di sole lo colpì negli occhi…e si svegliò nel suo letto. Scostò il capo, guardò la sveglia sul comodino ed ebbe la conferma di trovarsi nel suo comodo letto alle otto del mattino!
“Bene!” disse tra sé “finalmente una bella giornata di sole. Oggi voglio proprio sgranchirmi le gambe con una lunga passeggiata in campagna.” Da quando gli impegni lavorativi avevano lasciato il posto al riposo di una meritata pensione, Franco riempiva il suo tempo libero con due attività ludiche, che davano un senso alle sue giornate: la pittura e le lunghe passeggiate, a volte a piedi, a volte sulla sua Triumph Spitfire del 1978.
“Oggi è proprio la giornata giusta per fare uscire dal garage la spider” si disse convinto “voglio respirare a pieni polmoni la prima aria tiepida della primavera”.
Era di ottimo umore e mentre faceva colazione con Maria, la moglie, ricordò i propositi più volte fatti e poi puntualmente disattesi: appena torna il sereno voglio andare in campagna, nella vecchia casa dei nonni. Franco, infatti, era nato in una villetta in campagna, dove abitavano i genitori e la nonna paterna. Lì aveva trascorso i primi anni di vita e poi i suoi genitori si era trasferiti in città, dove aveva sempre vissuto. La casa era stata venduta, ma suo padre si era riservato una piccola mansarda, dove di tanto in tanto amava trascorrere qualche giorno di relax.
Quanti ricordi erano custoditi in quei piccoli locali! In particolare, lo attraeva una grossa cassapanca in noce nella quale erano raccolti i ricordi della vita della famiglia Giardina, del papà Paolo e del nonno Luigi.
Rinfrancato dall’abbondante colazione e da una doccia corroborante, dopo aver salutato Maria che era uscita per andare dal parrucchiere, era sceso in garage ed era salito sulla Spitfire con direzione “campagna”, accompagnato dal cinguettio delle rondini che avevano nidificato proprio nel sottotetto del suo appartamento al settimo piano. Pochi minuti di strada, col vento tra i capelli ed ecco apparire la stradina che conduceva alla sua vecchia, cara, casa. La imboccò senza esitazione, svoltò alla sua destra e si trovò di fronte al cancello verde che immetteva nel cortile principale. Salì al secondo piano, entrò nella mansarda e spalancò le finestre.
Il sole illuminò un locale ordinato, raccolto e confortevole: una piccola” casa delle bambole”, come amava definirla Maria, sempre pronta ad accogliere chi fosse alla ricerca di pace e serenità. Franco scostò la fodera bianca che copriva il divano, si sedette e guardò la cassapanca di fronte a lui. Le grosse borchie di ottone poste a protezione degli spigoli e la grande serratura con la chiave inserita nella toppa trasmettevano un senso di solidità: era un oggetto costruito per durare e per contenere i ricordi e le tracce importanti della vita dei proprietari. Sulla parte anteriore, subito sopra la serratura, campeggiava una data incisa nel legno: 1916 .Si accostò alla cassapanca, girò la chiave e sollevò il pesante coperchio. All’interno, ben allineati e ordinati secondo le dimensioni e la forma, una quantità di oggetti faceva corona ad uno scrigno metallico sormontato da una grossa croce rossa in campo bianco. Sulla parte anteriore, vicino alla serratura, era inciso un nome: Ten. Carlo Giardina.
Franco prese lo scrigno, richiuse la cassapanca, si sedette sul divano e guardò con curiosità il “tesoro” ritrovato. Non ricordava di averlo mai visto, ma in effetti non ricordava neppure quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che era entrato nella mansarda.
Sollevò il coperchio e vide che conteneva un plico di lettere, un paio di buste con le evidenti intestazioni del Ministero della Guerra, un quaderno rilegato e un contenitore di vetro che lasciava trasparire il contenuto: due medaglie opache con i rispettivi nastrini multicolori.
Prese il quaderno e lo osservò. Aveva un formato ridotto, quasi tascabile, i bordi consunti facevano intuire un uso frequente e il ripetuto inserimento in un contenitore rigido. Sulla copertina due date: 1915-1916.
Franco lo aprì e lesse sulla prima pagina, vergate con inchiostro rosso, le parole: Diario di Guerra.
Nelle pagine seguenti, scritte con una grafia minuta e chiarissima, le date, i pensieri, le sensazioni e le cronache del vissuto in guerra del tenente medico Carlo Giardina.
Dal richiamo alle armi, nei primi giorni di maggio, alla partenza da Torino, nelle settimane successive, all’arrivo nell’ospedale di Asiago, nel mese di giugno.
E poi i lunghi, terribili giorni di guerra, col racconto puntuale della sua opera di medico in prima linea, con i particolari e le descrizioni degli interventi, a volte condotti con successo, spesso inutili per salvare la vita di tanti ragazzi.
Una data colpì in modo particolare Franco, che si fermò a leggere: 25 dicembre 1915, Natale del Signore.
“Oggi è avvenuto un fatto sorprendente e inatteso, quasi un miracolo – lesse – dalle trincee nemiche uscì un uomo che sventolava una bandiera bianca. Tutti i fanti accorsero sul bordo della trincea, uno uscì e gli andò incontro nella terra di nessuno. Dopo poco tornò e disse che in occasione del Natale era stata decisa una tregua ai combattimenti. Così, il giorno di Natale trascorse in pace, con scambio di doni e di auguri! Un vero miracolo di guerra! E la meraviglia più grande fu quando tra la truppa nemica scorsi un ufficiale che mi guardava con insistenza e che venne verso di me gridando: “Carlo, sei proprio tu?”
Si trattava dell’amico, nonché compagno di corso all’Università, Peter Jung! Ci abbracciammo e trascorremmo lunghe ore a ricordare i tempi felici trascorsi insieme a Torino. Poi la tregua finì e rientrammo nelle rispettive trincee…”
Le pagine del diario si susseguivano poi nella puntuale descrizione delle giornate successive, segnate da accesi combattimenti e da tanti, troppi giovani strappati alla vita.
Il diario si concludeva con la data 14 maggio 1916 e con le parole: “Giornata di primavera sull’altopiano. Corrono voci che ci sarà un attacco nemico.”
Le pagine successive erano bianche…
Franco ripose il quaderno nel cofanetto. Incuriosito, prese poi la busta che chiudeva il plico, l’aprì, sfilò il foglio ingiallito e lesse.

Al Signor Luigi Giardina
Via Lejnì 2
Frazione Malanghero
San Maurizio Canavese (TO)

Egregio Signore,
mi riesce quanto mai gravoso scrivere questa lettera, che mai avrei voluto inviarle. Solo la mia coscienza e la promessa fatta a suo tempo a suo fratello Carlo mi hanno indotto al triste compito.
E’ mio dovere, infatti, comunicarle che il tenente Carlo Giardina ha lasciato il suo valore e la sua vita sulle rocce insanguinate dell’altopiano di Asiago il 15 maggio u.s.
Forse avrà già ricevuto la notizia da altre fonti e il solerte Ministero della Guerra avrà già provveduto ad informarla con grigio tono di circostanza formale dell’accaduto, ma io sento il dovere di scriverle per comunicarle alcune informazioni che ritengo di fondamentale importanza vengano a sua conoscenza.
Non serviranno forse a lenire il dolore per la perdita di un fratello, ma io credo possano contribuire a farle accettare meglio la di lui triste sorte e a conservarne la memoria con motivato orgoglio.
Il giorno 15 maggio u.s. il tenente medico Carlo Giardina si trovava nelle trincee della prima linea per coordinare i soccorsi ai numerosi feriti provocati dall’offensiva nemica, che dalla notte precedente aveva sferrato un violentissimo attacco nell’intento di fare breccia nella nostra fronte e di dilagare nella pianura veneta.
In una breve pausa dei combattimenti, i portaferiti e gli infermieri coordinati dal tenente Giardina avevano raccolto e riportato al coperto delle trincee i numerosi feriti caduti nelle prime ore della battaglia e stavano prestando i primi soccorsi.
Ad un tratto, venne udito un lamento proveniente dalla terra di nessuno e il tenente Giardina lasciò il sicuro riparo della trincea ed uscì all’aperto per individuare il ferito che invocava soccorso. Si avventurò sul terreno irto e sconnesso e lo raggiunse. Allora si accorse che l’uomo ricoperto di sangue che gemeva portava un’altra divisa, quella dell’esercito Austro-ungarico!
Ma il tenete Giardina non esitò e prevalse in lui il giuramento di Ippocrate fatto quando abbracciò la professione da lui considerata una missione senza confini.
Aprì la borsa delle medicazioni, estrasse garze, bende e disinfettanti e trasse a sé l’uomo. Solo allora si accorse che si trattava di un suo compagno del corso di medicina frequentato a Torino anni prima.
Si trattava, infatti, del tenente medico Peter Jung, nativo di Salisburgo, ma che aveva frequentato l’Università di medicina di Torino per stare vicino alla madre, originaria di quei luoghi.
L’amicizia dei due giovani si era rafforzata durante gli anni della permanenza comune nella città subalpina, grazie alle avventure goliardiche e alla comunanza degli studi. Erano inseparabili: belli, giovani, pieni di energia e di lealtà. Quando terminarono gli studi, il dottor Peter Jung tornò a Salisburgo per esercitare la professione e la lontananza, dapprima lenita da lunghe lettere, poi divenute sempre più rade, rese il distacco definitivo.
Da lunghi anni Carlo e Peter non avevano avuto alcuna occasione di incontro e anche il ricordo dei gioiosi anni trascorsi insieme era ormai avvolto in un bozzolo generato dalla quotidianità della vita. Il tenente Giardina si prodigò per arrestare l’emorragia, disinfettò e bendò alla meglio le profonde ferite e sollevò l’amico ferito per portarlo al coperto delle trincee. Fu allora che un cecchino colse la sua preda: il secco schiocco di un colpo di fucile e la vita di Carlo volò via, seguita dopo pochi minuti da quella di Peter. Li trovarono abbracciati la mattina seguente e il sangue e le ferite rendevano difficile distinguere il colore delle divise…
Questo era mio dovere comunicarle, Signor Luigi Giardina, perché in tal modo esaudisco il desiderio di sua fratello Carlo, che aveva affidato a me l’ingrato compito di informare la famiglia se fosse caduto sul campo, e rendo onore al valore ed allo spirito di sacrificio alto e puro di un vero medico e di un eroico soldato.
Nella speranza che queste mie righe le possano tornare di conforto, Le porgo i sensi delle mie più sentite condoglianze e la saluto con un forte abbraccio di condivisione.

Asiago, 20 giugno 1916

Mario Rossi
Colonnello medico del Corpo Sanitario dell’Esercito Italiano

Commosso, ripiegò il foglio ingiallito, lo infilò nella busta che lo conteneva e lo ripose nel cofanetto.
Sollevò poi l’astuccio di vetro, lo aprì ed esaminò il contenuto. Si trattava di due medaglie: l’una con l’effige del Re, legata ad un nastro tricolore sul quale era apposto orizzontalmente un gladio in bronzo sulla cui guardia spiccava il motto FERT, intrecciato con un ramoscello d’alloro, l’altra recante su di una facciata una grande croce rossa in campo bianco e sul retro l’incisione: “Esercito Italiano – Corpo Militare CRI – 1916”
Posò le medaglie, prese la busta del Ministero della guerra e lesse le motivazioni per cui era stata concessa l’onorificenza al Tenente Carlo Giardina, di Antonio, nato a San Maurizio Canavese il 17 febbraio 1881 e caduto sull’altopiano di Asiago il 15 maggio 1916: “Noncurante del pericolo dimostrò sempre calma e fermezza esemplari. Uscito tra i primi dalle nostre trincee, sotto il violento fuoco di mitragliatrici nemiche, raggiunse le posizioni avversarie per portare soccorso ai feriti, incoraggiando i compagni a seguire il suo esempio. Mentre si esponeva per riportare al riparo delle trincee un ufficiale gravemente ferito, venne colpito a morte.

Roma, 19 agosto 1917”.

Franco ripose la lettera nel cofanetto, lo chiuse, lo accarezzò con profondo rispetto e ricacciò una lacrima di commozione. Aveva incontrato la storia, quella con la lettera minuscola, quella vera, quella scomoda e giocata sulla pelle dei singoli. La storia che aveva coinvolto anche la sua famiglia.
Allora pensò alla ferocia, alla stupidità e alla sostanziale inutilità delle guerre, di tutte le guerre.
Ma considerò anche come in occasione di una tragedia di così vaste proporzioni, nelle circostanze estreme prodotte dalla guerra, possano emergere luminose manifestazioni dei migliori sentimenti: l’amicizia, l’altruismo e il senso del dovere.
Risalì in macchina e, mentre percorreva lentamente il viale illuminato dal prepotente fiorire degli alberi di Giuda, il suo animo si riempì d’orgoglio e di speranza per il futuro.

 

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