Iniziativa concorso letterario Moncalieri

Vorrei condividere con gli amici del blog il racconto che ho scritto in occasione di un concorso letterario indetto dalla città di Moncalieri, aperto a tutti, su temi liberi edizione 2013 – 2014. L’iniziativa ha suscitato il nostro interesse, ormai da qualche anno e alcune di noi hanno partecipato con i loro elaborati. Due anni fa Daniela Boscarato aveva vinto il primo premio come miglior racconto a livello nazionale e internazionale, l’anno scorso ha vinto sempre il primo premio l’elaborato di Emilia Testù e ci sono state menzioni speciali per il racconto di Daniela  e  di Marina Borge. Tutti i racconti sono stati pubblicati nel sito. Quest’anno non abbiamo ricevuto menzioni particolari come sezione Volpiano, ma siamo state contente  comunque di partecipare. Inoltre da due anni il Comune di Moncalieri provvede alla pubblicazione di un volumetto che racchiude tuti i racconti che sono stati inviati, sia per la sezione racconti, che per la poesia. Brillante iniziativa che é stata apprezzata da tutti. Provvedo a pubblicare il mio racconto, invito Daniela, Marina ed Emilia a pubblicare i loro. Grazie per l’attenzione. Gradiremmo commenti.

PS  Se il prossimo anno l’iniziativa si ripeterà invito tutti coloro che lo desiderano a partecipare.

IL RITORNO A CASA

Era un ragazzo del 1919: sano, robusto, capelli castani, occhi azzurri, bel portamento, sempre sorridente, simpatico e gioviale, si chiamava Giovanni Battista, ma lo chiamavano ” Batistin” ed era mio padre. Abitava a Volpiano nel Canavese, in provincia di Torino. Dopo aver frequentato la sesta, si era recato a lavorare a Torino come muratore, così da contribuire al sostentamento della sua famiglia composta da padre, madre, due sorelle più grandi e un fratello più piccolo. Non aveva conosciuto altre due sorelline più grandi di lui, perché erano morte in tenera età prima della sua nascita. La sua era una famiglia di contadini.

Batistin si divertiva con i ragazzi della sua età, in paese si conoscevano tutti ed erano tutti amici. Lavorava tutta la settimana, sabato compreso, ma la domenica faceva festa. Insieme agli amici andava a ballare nei cortili delle case, si recava al cinema del paese, faceva gite in bicicletta, oppure, nei mesi caldi, amava sguazzare con i suoi amici, nei fiumi e nei fossati dove avevano imparato a nuotare. Batistin non aveva mai visto il mare, era un suo desiderio poterlo solcare un giorno e navigare su quella distesa immensa, di cui aveva sentito tanto parlare. Era vivace, bramoso di vivere, come tutti i ragazzi a quella età. Talvolta, con gli amici, andava alla “maroda” (andare di frodo) in campagna. Si trattava di raccogliere la frutta sugli alberi incustoditi , ma puntualmente spuntava il proprietario, munito di bastone, che li inseguiva: bisogna essere veloci per non essere presi e i ragazzi erano agili come lepri. Penso che il divertimento consistesse proprio in quella sfida : creare le condizioni per vivere un’avventura, consci del pericolo che correvano, ma pronti a darsela a gambe all’occorrenza. La frutta era solo un pretesto goloso. Le punizioni arrivavano comunque, perché il proprietario conosceva i ragazzi uno ad uno e immancabilmente avvisava i genitori dell’accaduto, i quali provvedevano regolarmente a saldare i conti.

Si trattava, in effetti, di divertimenti semplici: una gita in bicicletta verso qualche santuario, come Belmonte, Oropa, i balli sull’aia nelle case private, accompagnati dalla fisarmonica e in presenza di adulti, per garantire il regolare svolgimento della festa. C’erano poi i festeggiamenti per i Santi patroni del paese : i Santi Pietro e Paolo, la festa della mietitura quando si batteva il grano, la vendemmia in autunno, le scampagnate nei campi, le merende in Vauda in primavera. In inverno, disponendo della Vauda, i ragazzi scendevano dalla “rivàur” , una pista ghiaccio preparata per l’occorrenza e servendosi di artigianali slittini (lèsa) , si lasciavano scivolare fino alla attuale piazza Cavour.

Durante le lunghe sere invernali, nella stalla, gli anziani si ritrovavano per recitare il rosario, per commentare i fatti del paese o raccontare episodi accaduti, vicende di vita vissuta anni prima. Le donne filavano assonnate, le ragazze preparavano il loro corredo e i bambini erano i più attenti, si stringevano l’un l’altro per tenersi al caldo, incantati dalle parole dei nonni.

La vita di campagna era dura: non era l’orologio a segnare il tempo, ma il sole, perciò si lavorava dall’alba al tramonto e ognuno nella famiglia dava il proprio contributo, secondo le proprie possibilità. I genitori erano i primi a dare l’esempio, recandosi nei campi prima che il sole sorgesse e si ritiravano la sera dopo il tramonto. Tutta la famiglia seguiva la vita nei campi, sentendo così lo scorrere del tempo, il pulsare delle stagioni, impegnandosi giorno dopo giorno a dissodare, arare, seminare, estirpare erbacce, raccogliere e conservare. Lavoravano tanto, con fatica e sacrifici. Spesso i campi non si trovavano vicino a casa, pertanto per raggiungerli andavano a piedi, oppure, chi lo possedeva, usava il carretto trainato dalle mucche. I figli imparavano così che nulla si poteva ottenere senza impegno.

La fatica era tanta per tutta la famiglia: sia per chi lavorava nei campi, che per chi restava ad accudire i bambini, la casa, le bestie. Le difficoltà quotidiane, l’incertezza del raccolto, i sacrifici richiesti ,erano parte della loro vita, ma la gente era serena, si aiutava l’un l’altro e si divertiva con poco. I rapporti tra i vicini erano cordiali, legati da sincere amicizie. Le gioie e i dolori venivano condivisi. C’era solidarietà tra le persone: chi era più bisognoso veniva “adottato” dal borgo e tutti provvedevano, come potevano a fornire l’aiuto necessario.

La domenica le ragazze e le donne si recavano a messa “prima”, alle otto, per poter poi preparare il pranzo, mentre gli uomini, con la “muda (vestito) dla festa”, con il nodo alla cravatta, fatto regolarmente dalla moglie o dalla mamma, si recavano alla messa “granda” alle undici, il giorno di festa. Finita la messa si raccoglievano sul sagrato della chiesa in piccoli gruppi per chiacchierare e discutere, magari fumando un mezzo sigaro in compagnia. Le ragazze al pomeriggio frequentavano l’oratorio , dove imparavano il catechismo , seguivano i vespri in chiesa e la benedizione. Terminate le funzioni facevano una passeggiata per il paese e in certe occasioni particolari, come la festa dei Santi patroni, avevano il permesso di comprarsi il gelato, o qualche dolcetto.

Ma torniamo al nostro Batistin: il ragazzo nutriva una simpatia (così si diceva allora), da qualche anno per Giuseppina, una bella ragazza che abitava anch’essa in paese. Frequentavano regolarmente gli amici, uscivano in compagnia; di tanto in tanto, appena lei riusciva a liberarsi dalla presenza vigile della mamma, i ragazzi si riservavano qualche momento da soli ,dichiarandosi il loro amore. Giuseppina aveva sedici anni, Batistin diciotto, non erano fidanzati in casa, anche se le famiglie erano al corrente delle loro frequentazioni.

Purtroppo nel giro di pochi anni quell’armonia, quella spensieratezza svanirono e le cose cambiarono profondamente a Volpiano, come nel resto dell’Italia e nel mondo. Le scelte fatte dal governo e l’ascesa del regime fascista, portarono il Paese all’entrata in guerra nel 1940. E così tutti i ragazzi di leva furono chiamati a ”servire la patria “ e a compiere il proprio dovere.

Batistin, di leva nel 1939, fu chiamato come tanti suoi compagni, prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Ricevette due cartoline di chiamata alla leva: con la prima veniva convocato in caserma a Fossano la domenica mattina, la seconda invece diceva di presentarsi il lunedì sempre a Fossano. Volendo sfruttare ancora la domenica con la sua Giuseppina, Batistin decise di prendere in considerazione solo la cartolina che lo convocava per il lunedì. Scoprì poi, diversi anni dopo , che i ragazzi che si erano presentati la domenica in caserma, non lasciarono mai l’Italia, né il Piemonte, per tutta la durata della guerra, mentre lui con altri suoi commilitoni, che si presentarono il lunedì, furono destinati alle “trasmissioni” e il loro reparto ,dopo alcuni mesi di addestramento, fu inviato a Bari e poi imbarcato per la Jugoslavia. Sfortuna? Destino? Chi può dirlo! Certo il giovanotto non sapeva ancora che lo aspettavano cinque anni di guerra durissimi, lontano da casa, tra mille avventure e pericoli; non immaginava certo, che cosa volessero dire il freddo e la fame, l’internamento ,le umiliazioni e le privazioni che avrebbe subito nei campi di prigionia. Quel mare che tanto aveva desiderato vedere e attraversare, gli avrebbe però impedito per anni, di poter ritornare a casa , se non a guerra finita.

E così Batistin, come molti altri ragazzi della sua età partirono intrepidi , incontro al loro destino. Nei primi anni riuscì a spedire alcune lettere dal fronte, accompagnate da fotografie che lo ritraevano nei boschi, oppure la fotografia della nave che li portò in terra straniera. Il ragazzo avvisava che stava bene e che le giornate scorrevano veloci, poi le notizie diradarono, fino a scomparire del tutto, lasciando posto ad un angosciante silenzio che durò anni.

La guerra si era impossessata, senza chiedere permesso, delle vite di quei ragazzi, delle loro famiglie: aveva rubato loro la giovinezza, li aveva privati della libertà, cancellando i loro sogni.

Le condizioni dei familiari a casa non erano meno drammatiche: cresceva la paura, si insinuava la diffidenza, l’odio, il rancore. I lavori nei campi, affidati alle donne rimaste sole, languivano, cresceva la miseria e la solitudine, anche se il regime manifestava soddisfazione per i successi militari a fianco della grande Germania.

Non sono in possesso di molte informazioni sui primi anni di guerra di mio padre, ma presumo che occupandosi di trasmissioni, la loro unità fosse impegnata soprattutto a costruire ponti radio e quindi si spostasse con frequenza da un posto ad un altro, tant’è che mio padre mi parlava di diverse città in cui era stato : Spalato, Sebenico, Durazzo, Tirana, Valona, Dubrovnik.

Successivamente ai fatti dell’otto settembre, le sorti dei soldati cambiarono; e Batistin con altri compagni furono catturati dai “titini” e internati nei campi di prigionia, in condizioni di profonda miseria, costretti a lavorare duramente, sostenuti da porzioni di cibo inadeguate, ridotti a contendersi le bucce delle patate tra loro. Erano sorvegliati a vista da carcerieri, altrettanto affamati e stanchi, irritabili e violenti, sempre pronti ad usare il coltello e a bastonare i prigionieri. Era indispensabile non mettersi in evidenza, cercare di non farsi male, né ammalarsi, perché sarebbero stati soppressi senza nessuna pietà. Le condizioni migliorarono, pur rimanendo prigionieri, quando furono ceduti ai tedeschi, i quali disponevano di mezzi e finanze diversi.

Batistin, come tanti altri ragazzi, portava con sé sempre, una foto del suo Amore: Giuseppina, perché lo illuminasse nei momenti bui di sconforto, perché gli desse la forza per andare avanti e per non perdere mai la speranza di poter tornare un giorno a casa.

Naturalmente faceva vedere la foto con orgoglio ai suoi compagni e così a loro volta essi mostravano le foto delle loro innamorate. Quante volte avranno parlato, scherzato tra di loro, in quelle lunghe notti all’addiaccio, braccati dalla fame e dal freddo insistente. Avranno raccontato delle loro case, della loro terra, dei loro affetti, dei loro sogni, per riuscire a vincere la nostalgia struggente che li tormentava. Mio padre mi parlava delle notti d’estate calde, afose, trascorse in Albania a guardare le stelle e ad ascoltare il suono di una fisarmonica, di un violino che suonavano lontano. I prigionieri si perdevano nell’ascolto di quelle melodie e ripensavano alla propria terra e alle persone lontane. Non a caso, papà, amava ascoltare, anni dopo, la canzone “Violino tzigano”, perché gli ricordava quelle notti piene di tristezza e di malinconia, in cui la nostalgia di casa era straziante.

In realtà mio padre nei suoi racconti, non ci parlò mai di violenza, di morte. Erano spesso ricordi divertenti, legati alla ricerca incessante di cibo: episodi in cui aveva trattato con i contadini per qualche patata, oppure quando si era offerto come macellaio ai tedeschi, per la sola associazione macellaio – carne, senza aver mai fatto quel mestiere. In effetti fu assegnato in cucina a spolpare ossa di vitello, riuscendo anche a saziarsi, con il benestare dei tedeschi. Ci raccontava le parole che aveva imparato in slavo e in tedesco, di come riusciva a formulare discorsi semplici nelle due lingue e a comprendere cosa dicessero gli uni e gli altri. Ci descriveva il territorio, i paesaggi, la povertà della popolazione locale, il profilo delle coste italiane, nelle belle giornate limpide, apparentemente così vicine, ma irraggiungibili.

Eppure mia madre ci raccontava che, nei primi anni di matrimonio, spesso papà si svegliava in preda ad incubi atroci, tutto sudato, gridando: nei suoi occhi poteva leggere la paura, ma anche in quelle occasioni, Batistin non riferiva mai che cosa stesse rivivendo. Ci volle del tempo perché quegli incubi sparissero del tutto.

Più grande, non sono più tornata sull’argomento guerra e prigionia, ma penso che papà non avrebbe raccontato niente di più di quello che ci aveva narrato da bambine, probabilmente per proteggerci, per difenderci da quel mondo crudele, per non inclinare la nostra fiducia negli uomini, nella loro capacità di perdonare e nelle loro infinite risorse.

Con tante domande senza risposta, purtroppo, qualche anno fa mi recai in Croazia, proprio per vedere i posti di cui avevo sentito parlare da papà, per ripercorrere quelle strade, alla ricerca di chissà quali rivelazioni, o forse solo per conoscere quei luoghi, per poi condividere con mia madre emozioni e ricordi.

In una di queste mete, capitai in un ristorante tipico: ero assorta nei miei pensieri, rivolti proprio a mio padre, mancato parecchi anni prima e al mio rammarico, di non poter condividere con lui quella bella vacanza. Fu allora che un uomo vestito con i costumi locali, che suonava il violino, si abbassò su di me, intonando le note di “Violino tzigano” e mi disse: “Conosce questa canzone? E’ dedicata a Lei!” Io sorrisi, e gli dissi che l’avrei ascoltata volentieri, perché quel brano era la canzone preferita da mio padre, ed era come se me l’avesse dedicata lui.

Arrivò finalmente la fine della guerra e il ritorno a casa dei soldati. Posso immaginare l’ansia, la trepidazione, l’attesa che potevano provare le donne che aspettavano il ritorno dei loro uomini.

Batistin fu tra gli ultimi a ritornare. Arrivò a fine maggio del 1945 a Volpiano. Era stato liberato dagli alleati e imbarcato qualche tempo prima, dal porto di Valona, destinazione Bari su una nave militare, con altri suoi compagni. Giunti a Bari furono accolti in un campo di accoglienza gestito dalla Croce Rossa, dove furono curati, rifocillati, ripuliti e rivestiti. Passarono qualche settimana nel campo e poi furono congedati e forniti di salvacondotto per ritornare a casa. A piedi, sui treno merci per certi tratti, sui carri, con mezzi di fortuna, aiutato dalla benevolenza della gente, Batistin attraversò l’Italia da sud a nord per giungere finalmente a casa.

Appena giunto in paese, si recò a salutare sua sorella Laurina, a cui era particolarmente legato, e qui conobbe la sua bambina Anna, nata durante la guerra, poi a casa sua, in Via Roma. Quanta commozione e tenerezza nel riabbracciare le persone amate, riunite tempestivamente nella casa paterna: sua madre, suo padre, le sorelle, suo fratello. Si ripulì velocemente, si cambiò d’abito e poi corse volando verso casa di Giuseppina, mia madre, con il cuore che batteva all’impazzata. Certo conosceva i sentimenti di lei, ma erano passati tanti anni, senza notizie: le cose potevano essere cambiate profondamente. La guerra aveva cambiato tutto. Anche lui era una persona diversa: un uomo, non più un ragazzo, come quando era partito spensierato. Era stato un soldato che grazie all’aiuto del Signore e tanta fortuna, ritornava a casa sano e salvo, dopo aver combattuto per la sua patria. Era riuscito tra mille difficoltà e interrogativi a mantenersi lucido: ora voleva solo lasciarsi alle spalle quella inutile sofferenza, quei fatti dolorosi e iniziare a vivere con il suo Amore. Erano stati lontani troppo tempo.

Intanto la notizia del suo ritorno si era già diffusa in paese. Giuseppina si stava recando con suo padre in un campo a Bendola, sulla strada nuova. Batistin, avvisato, li rincorse in bicicletta e li fermò. Si incontrarono così, per strada: si abbracciarono, piansero, risero, si strinsero forte, quasi a non voler più liberarsi da quella stretta. I loro cuori battevano finalmente vicini. I capelli di lei profumavano di grano: Batistin affondò le sue dita tra quei capelli e poi cingendola in vita, la sollevò in alto, girando su sé stesso, sotto lo sguardo compiaciuto del padre di Giuseppina. Avevano tante cose da raccontarsi, tanti progetti da realizzare, ma sapevano di avere davanti a loro tutto il tempo che volevano. Restarono in silenzio, abbracciati, un tempo indefinito, adesso volevano solo godersi appieno la felicità di essersi ritrovati.

Franca

3 Commenti a “Iniziativa concorso letterario Moncalieri”

  1. DANIELA B. scrive:

    Carissima Franca,
    menomale che ci sei tu a cercare di tenere vivo questo blog!
    Ho riletto molto volentieri il tuo racconto e nella dettagliata descrizione del tuo papà l’ho immaginato: Bello, solare e simpatico: (d’altronde tu avrai ben preso qualcosa da lui, senza nulla togliere a nonna Pina). Bellissima testimonianza di storia famigliare e come sempre ben scritto e ben esposto. Pubblicherò anch’io
    il mio, che come sai tratta invece un argomento attuale, ma non adesso. Non voglio distrarre e annoiare i numerosi lettori (?) mettendo troppa carne al fuoco.
    Un abbraccio e scrivi sempre! Daniela

  2. Daniela B. scrive:

    Michele ha letto il tuo racconto.
    Gli è piaciuto e ha voluto commentarlo alla sua maniera.
    Siccome è piuttosto lungo come commento, lo pubblico in “front page”
    Ciao.

  3. Margherita scrive:

    Sono contenta che la primavera abbia risvegliato qualche blogger.

    Non è sempre facile trovare argomenti per tenere vivo un blog,

    però adesso ……CONTINUATE A SCRIVERE !!!!!

    Anzi preparatevi per il prossimo anno in tanti perchè come ha detto Franca l’Unitre di Moncalieri sicuramente ripeterà il concorso letterario e ristamperà il libro, e non solo quella sede, ma anche altre Unitre sparse in tutta Italia dove si possono mandare racconti e poesie e dove diversi nostri associati in passato hanno partecipato con successo.

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