Quando Nardò accoglieva gli ebrei in fuga

santa maria

“Vorrei esprimere la mia gratitudine al gran popolo italiano. Io ed altri 1.500 ebrei jugoslavi perseguiti dai nazi durante la seconda guerra mondiale siamo stati salvati dal governo italiano. Prima della fine della guerra ci hanno trasportati a Bari e dopo a Nardò, a Santa Maria al Bagno. I ricordi di quei posti hanno lasciato un’ impressione indimenticabile nella vita. La gentilezza degli abitanti, le bellezze naturali, vigne, spiagge, non dimenticherò mai ”.

” Nel Salento ci sono pezzi di storia poco conosciuti o dimenticati dai più. Il profugo ebreo Jakob Ehrlich, con queste parole, ce ne dà una conferma e allo stesso tempo riporta alla luce una bella pagina di storia di questo territorio. Una storia di accoglienza, vera. Dal 1944 al 1947 a Santa Maria al Bagno fu organizzato un grande campo profughi, conosciuto come n°34 o con la denominazione di Santa Croce. La preparazione del campo fu inizialmente opera degli inglesi, in seguito coadiuvati dall’UNRRA (United Nations Relief Rehabilitation Administration). Le istituzioni organizzarono l’accoglienza requisendo anche le case e le ville adoperate dai neritini per le vacanze, nelle quali furono ospitati i rifugiati. L’obiettivo era quello di far confluire, in un posto sicuro, la massa di profughi ebrei che fuggivano dalla persecuzione nazista.
In quegli anni Santa Maria al Bagno si trovò letteralmente invasa da questa moltitudine di fuggiaschi ( il campo arrivò a contenere sino a 3.000 rifugiati) di varie nazionalità: turchi, russi, greci, lituani, ungheresi. Uomini, donne e bambini che furono internati nei campi di concentramento e che vissero sulla propria pelle la follia nazista. Per loro Santa Maria al Bagno doveva essere solo un punto di passaggio prima di approdare nella “terra promessa”: la Palestina. Ma la permanenza si rivelò più lunga delle attese, sopratutto perché allora gli inglesi non erano favorevoli alla formazione di uno Stato di Israele.
Presto però Santa Maria al Bagno dimostrò di essere più di un “ghetto dorato”, con il mare che pareva una lastra di vetro al rispecchiare dei raggi solari, con le ville, la natura. Un paesaggio armonico che si conciliava perfettamente con la gentilezza degli abitanti del posto. Quest’ultimi non venivano da un periodo facile, era appena terminata la guerra, la maggior parte della popolazione viveva in uno stato di povertà. Ma alla fine del ’44 e per tutto il periodo di cui parliamo, la vita cominciava faticosamente a farsi strada verso una nuova normalità: le persone si riappropriavano di una vita sociale, ricominciavano le feste, i riti religiosi, il lavoro.
L’emergenza profughi che colpì in pieno il territorio e gli abitanti di Santa Maria al Bagno fu, in un certo senso, l’ultimo conto presentato dalla Guerra a Nardò. Inizialmente la diffidenza fu tanta. Volti scavati, duri, bocche chiuse, atteggiamenti schivi. Facce che parevano aver vissuto l’inferno, dal quale non ci sarebbe più stato ritorno. Questo fu il primo contatto tra due popoli coinvolti in una stessa guerra, certamente vissuta in maniera diversa , ma che adesso si trovavano insieme sotto lo stesso tetto, nella stessa piazza. La diffidenza però fu superata in fretta, lasciando il posto alla solidarietà. Presto si crearono comitive di amici formate da autoctoni e profughi, si andò insieme al mare, al cinema, a cena. Sbocciarono i primi amori, sia nel campo ( furono 400 i matrimoni tra profughi celebrati a Santa Maria al Bagno) sia tra rifugiati e neritini. Alcuni di questi rapporti sentimentali durano tutt’ora. Per le cerimonie furono messi a disposizione dalle persone del posto i loro abiti nuziali, adattati e rimessi a nuovo, un bel gesto di fraterna solidarietà.
Anche l’organizzazione dell’accoglienza da parte di chi governava fu impeccabile, sul piano materiale non mancò niente ai profughi. Inoltre, man mano che i rapporti tra le due popolazioni diventavano sempre più amichevoli, il campo veniva dotato di maggiori servizi e strutture. Insomma più che un campo sembrava un piccolo centro abitato: vi erano tre mense, due sinagoghe, un ospedale, un ambulatorio medico e uno studio dentistico. In una località ( attuale villa de Benedittis) si celebravano matrimoni, si svolgevano concerti, spettacoli teatrali e feste da ballo.
Non è un caso se a distanza di decenni quegli stessi profughi si ricordino ancora di Santa Maria al Bagno come di un posto dove sono rinati. Dopo aver visto i propri simili essere introdotti nei forni crematori, subito umiliazioni, assistito a fucilazioni di massa, a Nardò, a Santa Maria al Bagno, quegli stessi profughi hanno riscoperto di essere persone. Delle persone che adesso sono eternamente grate agli abitanti e alle istituzioni di Nardò.
Da questa gratitudine, espressa principalmente in numerose lettere di riconoscenza, la memoria di quell’esperienza è rimasta viva anche dopo la chiusura del campo. Per quell’accoglienza nel 2005 il Presidente Ciampi conferì alla città di Nardò la Medaglia d’oro al Merito Civile. Non solo. Tutte le sensazioni sopra descritte è ancora possibile viverle nel Museo della Memoria e dell’Accoglienza di Santa Maria al Bagno, gestito dall’Associazione Tic Tac. Una struttura inaugurata nel 2009 e interamente dedicata a quell’esperienza.
Lo scorso martedì , come spesso accade, il museo è stato visitato da un gruppo di ebrei. Un uomo, nato anch’egli in un campo profughi, ha pianto alla vista di alcune foto affisse sulle pareti. Girando tra le mura del museo l’emozione è palpabile, un nodo ti si stringe in gola alla vista di una carta d’identità marchiata dal Reich con una grande J rossa che stava ad indicare “Juden”, Giudeo. Tre grandi murales, ritrovati in una vecchia casa dell’epoca, raffigurano tre diversi momenti dell’odissea dei profughi: il bisogno di una patria, la lunga migrazione verso il Salento e il rifiuto di un soldato inglese di consentire l’accesso a Gerusalemme.”

Dalla lettura di questo articolo comparso su un giornale locale pugliese e scritto da Stefano Martella nel 2013, mi sorgono spontanee alcune domande:
– Com’é possibile che nel ’44, nel ’47, in un’ Italia devastata dalla guerra in corso o appena conclusa, sia stato possibile allestire un campo per 3000 profughi, in un paesino, ridente, costiero, che io ho visitato, ma comunque ancora piccolo oggi, una frazione di Nardò?
– Sicuramente gli aiuti del Piano Marshall sono stati determinanti, il dirottamento in Puglia di tante persone provate da anni di reclusione sarà stato deciso per avvicinarli alla futura destinazione in Palestina, ma la solidarietà e la vicinanza delle persone del posto, la loro accoglienza, la loro comprensione, ha fatto la differenza, ha ridato a quelle persone distrutte, senza futuro e senza passato, una ragione per tornare a vivere, per comprendere che non esiste solo un modello di persone capace di gesti efferati, senza pietà, prive di coscienza, incapaci di un gesto di pietà, la gente di questo piccolo paese ha ridato loro una SPERANZA e UNA RAGIONE PER CONTINUARE A VIVERE.

Non si sarebbe potuto ancora oggi ripetere il miracolo, dando speranza alle migliaia di persone che fuggono dalla guerra, dalla miseria, dalla violenza, fornendo loro gli aiuti necessari direttamente , facendosi carico delle loro generalità, competenze, ascoltando le loro storie, i loro piani per il futuro, ricompattando i nuclei familiari,  invece di rispedirli da dove sono fuggiti, delegando ad altri sostegni economici, autorizzazioni e mezzi  per occuparsi di un’emergenza che non abbiamo voluto affrontare?

Franca Furbatto

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